Questi nostri corpi sono fragili, deboli, si disuniscono facilmente, basta un non nulla e inciampano, si infortunano, si ammalano, si disgregano, si corrodono, infine muoiono.
Non maturano in realtà, non migliorano, a dire il vero malamente e disgraziatamente invecchiano e, ad un tratto, prima o poi si spengono.
Quando osservo i nostri corpi al mattino presto - col pensiero ancora libero dagli impegni che di lí a qualche minuto mi aggrediranno e non daranno piú tregua per il resto della giornata, (e poi vallo a pensare un pensiero durante quel terremoto che è una giornata normale) - io fatico sul serio a vedere in questi corpi, nei nostri corpi, gli ideali di Forza e Perfezione e Armonia e Bellezza che ricercavano e trovavano i Greci; per me, di prima mattina sveglio seppure ancor sospeso tra veglia e sonno arretrato, con le idee assonnate ma chiare, ancora non confuse dalle futilità che di lí a qualche minuto mi tenderanno il consueto agguato giornaliero avvelenandomi l'intelletto, quegli ideali, dicevo, ora che sono sveglio rimangono quello che sono: una serie di ideali, appunto, fine a se stessi e irrealizzabili. Come dio.
Ammetto che credere a essi possa probabilmente dar di certo sollievo a qualcuno ma non a me. Tengo alta la guardia, ne ho fatto esperienza: non mi seducono piú.
Questi corpi caduchi, anche quelli all'apparenza piú in forma e piú sani, mentre li osservo sono già malati di vita e morte - che poi dire vita è dire morte: è la stessa cosa.
Alcuni sono già infortunati o si infortuneranno tra qualche ora, tra qualche giorno, tra qualche settimana, tra qualche mese o tra qualche anno, sono caduti o inciamperanno e cadranno tra non molto sull'ostacolo che è l'imperfezione delle debolezze della materia degli atomi che li compongono, e infine si spezzeranno o alcuni sono già spezzati e ancora non lo sanno.
Siamo fatti per andare a male, per marcire perchè questo è vivere: passare dallo stato acerbo a quello maturo a quello guasto e irrecuperabile; diventare, e nel divenire poi finire.
Panta rei, ok, ma poi kaputt!
*Next stop is Tottenham Court Road. Change here for Central, Northern and Elizabeth line!*
Distolgo lo sguardo dai corpi altrui e mi concentro sulla punta delle mie ginocchia, mi alzo, mi metto in coda verso la porta automatica del vagone per uscire.
Due mesi fa mentre passeggiavo il muscolo del mio polpaccio destro si è improvvisamente prima stirato e nel giro di un secondo poi irrimediabilmente strappato, e ancora zoppico e provo dolore e faccio fatica a caricarci sul il peso di questo corpo flaccido da ex alcolizzato, a muovermi e passeggiare come prima.
- cosa significa, prima? -
Ho bestemmiato, ho urlato dal dolore, ho passato una settimana a letto e un mese e mezzo a chiedermi come fosse possibile che a 37 anni io, uomo col sangue del Sud, tormentato dai venti e le piogge e gli inverni del Nord, Napoletano, erede legittimo della Forza e dell'Ideale greco, mi sia strappato un muscolo mentre semplicemente stavo passeggiando. Mi sembrava un infortunio senza giustificazione e ragione, mi ripetevo "si fosse strappato mentre stavo correndo o facendo un gesto atletico, come io e il mio inutile medico curante entrambi abbiamo letto su Google guardandoci in faccia perplessi, nel suo studio senza attrezzi, sedie e senza medici, avrei potuto anche capire ma..."
Poi ho iniziato a prestare piú attenzione e osservare nuovamente i corpi altrui che poi sono anche il mio corpo, come sto facendo questa mattina mentre tutti scendiamo dal vagone come fossimo nient'altro che merce di scambio (il mio tempo per il tuo danaro che riceverai con gli interessi a fine mese quando pagheró tutte le mie spese ma io mai piú avró indietro questo tempo che oggi sto mercanteggiando e per sempre perdendo), e quindi come un convincimento improvviso e illuminante è arrivata questa consapevolezza che ti sto raccontando e quella che mi svela che un muscolo strappato non tornerà piú all'elasticità di un muscolo appena nato e in forma, rimarrà una cicatrice che per quanto possa abituarsi alla tensione è e sarà d'ora in poi una cicatrice, fino al momento supremo in cui la vita semplicemente appassirà e, svelata la sua vera natura, sarà finalmente morte.
Una circostanza simile mi è accaduta negli ultimi 10 anni quando, dal nulla, l'acufene mi ha colto nel sonno la notte tra un ultimo Venerdí e un ultimo Sabato di Maggio e dal 2014 non mi dà tregua e pace, e certi giorni vorrei solo spegnere il cervello per sempre, tirarmi un colpo in testa o ingoiare una intera scatola di sonniferi mentre in altri, piú leggeri e spensierati, ci ho fatto pace e amicizia e io e l'acufene ci teniamo compagnia.
Al silenzio come ad altri piaceri, e persone a me care, ho dovuto fargli il funerale e poi fare i conti con il lutto di averli persi e pazienza.
A dire il vero, non so oggi se riuscirei ancora a percepirlo quel silenzio che tanto mi dava pace un pomeriggio d'estate che ero a braccia conserte nei pressi di Järvenpää, in piedi a rendere i miei omaggi sulla tomba di Sibelius - l'ultima mia estate senza acufene.
A questo tinnito che non mi dà respiro ci ho fatto l'abitudine ormai e ho imparato a riconoscerlo.
Il silenzio, quel silenzio d'oro, nostalgico, mi è oggi estraneo e alieno.
Mi sono ad un certo punto chiesto, per questo polpaccio strappato come per l'acufene e il mio udito malandato (porzioni cadute di questo corpo malmesso che senza tregua invecchia da quando suo malgrado è stato messo al mondo), se ha ancora senso arrabbiarsi e provare dispiacere e vergogna e dolore e nostalgia, e desiderare di voler vivere in eterno e sempre avere un corpo sano, consapevole che il corpo è materia e la materia naturalmente si disgrega.
Mi sono finalmente risposto, no, da qualche tempo e per lo stesso motivo per cui da quando ho memoria ho detto no a un qualsiasi tipo di ideale irrealizzabile, falso, fallace; l'idea di dio, compresa.
La morte, unica eccezione.
Vorresti vivere in Eterno? ho appena letto sul cartellone pubblicitario di fronte alla banchina sulla quale sto aspettando la metro per la coincidenza tra Tottenham Court Road e Waterloo Station.
No, io non vorrei vivere in Eterno.
Al massimo, se qualche inimmaginabile, impensabile, inverosimile magia potesse riportarci al punto di partenza, io invece vorrei rivivere tutti gli anni passati delle prime volte - il primo viaggio all'estero, il primo bacio, la prima volta del cuore e quella che fu la prima del corpo, la prima volta in cui a 5 anni ho pensato alla morte contemplando il corpo di mia madre nudo sul letto, la prima morte a cui ho assistito, i primi libri, i primi giochi, i primi amici, le prime gioie effimere e senza pensieri, e i primi dolori e malumori esistenziali - e tutto vorrei rivivere con gli occhi e l'intelletto dell'uomo disgraziato che oggi io sono.
Solo questo vorrei, oppure finalmente spegnermi perchè oggi ho i piedi per terra e una fede radicata nel pensiero:
io credo nella morte e credo che essa sola sia l'unico evento naturale che possa valorizzare la nostra esistenza.
La morte mette un punto, permette di sondare negli anni della nostra vita senza senso, contestualizzandola nel tempo, e solo il pensiero della morte riesce a portarci alla mente tutti gli attimi di Bellezza vissuti e mai colti, come fiori rinchiusi ancora nel bocciolo, promesse fatte, mantenute o infrante.
La morte è necessaria perché una vita senza morte sarebbe come uno dei tramonti costanti, senza crepuscolo e senza notte, che ho osservato in un silenzio ormai irrimediabilmente perduto e sconosciuto, durante un mio secondo viaggio in Finlandia: il tramonto del solstizio d'estate, atteso, immaginato, desiderato e poi finalmente avuto, conquistato: pacifico per la prima mezz'ora, monotono e monocromo per tutto il resto del tempo che ho speso seduto fissando le acque del Villilänsalmi, la prima estate accompagnato dall'acufene, chiedendomi "tutto qua?"
La stessa domanda che mi assale in questo preciso istante mentre chiavo la serranda del negozio alle 06:20 del mattino e una giornata di lavoro intenso mi agguanta come una mano nera non appena apro la porta e come un vampiro mi azzanna al collo, senza staccarsi.
Amen.