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La Salomè di Barrie Kosky o le virtù della sottrazione
3 Months ago

“E la danza dei sette veli?”.
Cala il sipario al Teatro Costanzi di Roma. Elda si alza scura in volto ed esce.
Senza fiatare. Interdetta.
É appena terminata la “Salomè” firmata dal regista australiano Barrie Kosky e dal direttore d’orchestra Marc Albrecht.
Domani alle 10 inizia il suo corso di “Letteratura Tedesca”, si comincia con Goethe.
Un pensiero le frulla in testa tutta la notte: si può allestire una Salomè senza la danza dei sette veli?
Le sembra inaccettabile.
L’arte lavora per sottrazione, lo dice pure Barthes.
E di Barthes, almeno io, seduto accanto a Elda, mi fido.
Va bene la sottrazione, pensa lei, ma qui si è sottratto troppo.
Altro che minimalismo! La scenografia non è che sia ridotta all’osso, di più. Non c’è proprio.
Sembra una grande scatola nera in cui si muovono gli attori.
E poi: la danza dei sette veli non si tocca! Mai.
Togli la danza, momento chiave di tutto il dramma, togli la scenografia, cosa resta?
Restano un po’ di cose, dico io, e quelle mi bastano. Anzi, mi esaltano.

Si alza il sipario su un palco tutto nero, Badiou lo definirebbe “lo splendore del nero”.
Nel mezzo del silenzio, prima dell’inizio, si sente un volo di uccelli. Cosa sono? Non si comprende, poi ripensando al testo appare chiaro.
È il battito di ali che sta in due punti chiave del dramma. Quando Salomè incontra Giovanni che afferma: “Indietro! Indietro! Odo nel palazzo il battito d’ali dell’angelo della morte”.
E alla fine, poco prima della danza di Salomè, quando Erode al sentire quel volo dice:
“perché mai sento nell’aria questo battito d’ali? Sembra come se ci fosse un uccello, un grande uccello nero, librato sulla terrazza. Perché mai non riesco a vederlo, quest’uccello? Il battito delle sue ali è terribile”.
Terribile presagio di cosa accadrà a breve: la morte di Giovanni e poi di Salomè.
Barrie Kosky lo pone all’inizio, quando lo spettatore si sta ancora aggiustando sulla sedia; è un indizio per capire in quale direzione ci sta portando. La scelta registica è chiara da subito: è la storia di un eros dominato dalla morte.
Assecondo questa traccia, a differenza di Elda, troppo restia a seguire nuove strade.

Sul palco di un nero che non dà riferimenti, gli attori si muovono seguiti dal cono di luce disegnato da Joachim Klein (direttore delle luci). In questo allestimento la luce ha un ruolo decisivo: è la purezza della Forma.
Sembra di stare di fronte a una versione del “Quadrato nero” di Malevic, quando il pittore tentò di liberare l’arte dalla zavorra dell’oggettività per far venire alla luce la pura sensibilità.
L’operazione di Kosky segue la stessa dialettica: solo nel “deserto” (è Malevic a parlare di deserto nel suo manifesto), quando non ci sono più immagini del Reale, la luce può scolpire gli attori, dare loro forma, dare forma al loro dramma. E proprio in mezzo a questa assenza, la potenza delle parole di Salomè (una molto credibile Lise Lindstrom) viene fuori con maggiore precisione.
L’ultima Salomè al Costanzi è stata per la regia di Albertazzi (2007) e in quella occasione una tra le scene più potenti fu caratterizzata da una enorme luna luminosa sullo sfondo: gli attori si muovevano, stagliandosi su quella presenza ingombrante. Nella regia di Kosky invece la luna esercita la sua presenza da lontano, non la vediamo eppure è presente.
Appare fin dalle prime battute ed è anch’essa un presagio: “Guarda la luna […] somiglia a una donna che sgorga da un sepolcro. Somiglia a una donna morta. E si direbbe che vada in cerca di morti”. Il cono di luce di Klein segue costantemente Salomè, segue colei che alla fine effettivamente sarà morta.
E la giovane aggiunge che “la luna è vergine, non si è mai contaminata”. Kosky segue la traccia del testo di Wilde: la luna sta in alto, non la vediamo, vediamo la sua luce, ma non altro. Non si contamina in questo mondo di buio e di morte, ne resta fuori eppure guida la scena. Il fascio luminoso rende tutto vivo e presente, segue e porta in primo piano gli attori.
Non è la luna di Albertazzi che facendo da sfondo, per contrasto chiaroscurale, metteva in risalto le sagome; la luna di Kosby crea i corpi, li rende solidi e sembra quasi potenziare la voce. La luce diventa strumento di voce.

Nel susseguirsi delle scene, perfettamente accompagnate da un orchestra che fa sentire tutta la propria presenza, esaltata dal direttore Albercht, si arriva al momento decisivo del dramma: la danza di Salomè.
Salomè danza?
No.
Si siede a terra e inizia a trarre fuori dal ventre una treccia di capelli che non finisce mai. Passano istanti, poi minuti. Una gestualità reiterata.
Le mani di Salomè ripetono un movimento continuo.
Freud ha spiegato che la coazione a ripetere è un meccanismo della mente: “ciò che è rimasto capito male ritorna sempre; come un’anima in pena, non ha pace finché non ottiene soluzione e liberazione”.
Il trauma del rifiuto di Giovanni è l’irrisolto di Salomè. C’è un desiderio castrato che prende forma in una movenza delle mani della giovane che ricorda l’autoerotismo maschile.

Elda, accanto a me, intanto è scossa, freme.
Dov’è la danza dei sette veli? E quando finisce questa scena?
Un uomo all’uscita, più tardi, dirà: “qualcuno più preparato di me, deve spiegarmi questa scelta”.
Evidentemente Kosky ha deluso una parte del pubblico. Tuttavia la direzione di Albercht ha tenuto botta, portando il risultato a casa.
Ma perché questa scelta che inevitabilmente fa discutere?
Provocazione? Troppo semplice, siamo nel 2024 non nel 1924, non ai tempi di Malevic.
E allora?
La danza dei sette veli è espressione di un Eros che seduce, che inebria dionisiacamente. Nella versione moderna di Wilde-Strauss il corpo di Salome è corpo che desidera, che vive il proprio desiderio e in quanto corpo femminile - in senso classico (greco) - è ricettività desiderante, è un vuoto che aspira alla pienezza. E in tal senso la sensualità si esprime attraverso un corpo che desidera il desiderio altrui (Salomè che vuole essere amata e desiderata da Giovanni).
È qui che avviene il rovesciamento: non più una danza che cerca di attirare a sé l’altro, non più un movimento centripeto, ma al contrario una dialettica centrifuga: Salomè che estrae da sé e caccia fuori (liberandosi?) Giovanni (i capelli). Non più un vuoto che vuole diventare pienezza, ma un pieno che vuole fare spazio, liberandosi di Giovanni.
È lo stesso vuoto del palcoscenico.
Ecco la chiave per comprendere la scelta di sottrazione fatta dal regista.
In questo spazio vuoto Salomè può accogliere la testa di Giovanni che appesa a un cavo uncinato oscilla su tutto il palcoscenico: è quella la vera danza. La donna gioca con la testa, la bacia anche se insanguinata: è l’erotismo lucreziano della “dira cuppedine”, la passione feroce che si nutre di baci ambiguamente trasformatisi in morsi. L’eros smisurato che conduce alla liberazione finale.
In questo giocare con la testa, alla fine Salomè la afferra per posizionarla davanti al proprio viso: è l’identificazione finale. Il soggetto desiderante che si risolve nell’oggetto desiderato. C’è l’annullamento di ogni differenza e la soluzione sta nell’identità: Salomè diventa Giovanni.

Il filosofo coreano Byung-Chul Han da anni insiste sull’idea di un “Eros in agonia” e tra le sue pagine possiamo trovare un’indicazione per comprendere meglio il finale. In quello che egli definisce “l’Inferno dell’Uguale” non c’è più alcuna esperienza erotica autentica perché il soggetto ha logorato l’Altro, fino a cancellarlo; all’Io “il mondo appare soltanto per adombramenti del suo stesso sé.
È incapace di riconoscere l’Altro nella sua alterità e di accettare questa alterità”. L’Altro sparisce nel regime dell’Io. Giovanni sparisce nel regime di Salomè. Tutto è ridotto ai minimi termini affinché resti solo Salomè, non esiste spazio per altro.

Elda resta perplessa e davanti a un calice di Sassicaia mi spiega che filologicamente l’allestimento non regge; a suo parere a salvare lo spettacolo è la direzione di Albercht che ha saputo restituire il senso del dramma, a differenza di Kosky che ha giocato al ribasso, come una finale di doppio a tennis in cui uno dei giocatori ha un braccio ingessato.
Io invece resto col mio entusiasmo, perché al di là di tutto Kosky ha avuto il coraggio di rischiare "la giocata": ha lavorato di sottrazione per costruire la narrazione di una Salomè solida, espressione di un eros perturbante e soprattutto capace di reggere l’intero dramma nel gioco finale con la testa di Giovanni.





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